Silvio e Bertrando Spaventa

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I fratelli Silvio e Bertrando Spaventa

Silvio e Bertrando Spaventa nacquero nel Palazzo Spaventa, situato in via Aruccia, anticamente conosciuta come via del Gallinaro. La casa, che ancora oggi conserva il fascino dell’epoca, è meta di pellegrinaggio culturale: studiosi, intellettuali, visitatori illustri e cittadini comuni si recano a Bomba per conoscere da vicino i luoghi legati alla famiglia Spaventa. Tra gli ospiti più noti che hanno visitato il palazzo figura anche Elena Croce, figlia del filosofo Benedetto Croce, a testimonianza del prestigio intellettuale e storico dell’abitazione.

Silvio Spaventa

Silvio Spaventa nacque a Bomba, in provincia di Chieti, il 10 maggio 1822. All’epoca, il paese contava circa 2.500 abitanti. I suoi genitori, don Eustachio Spaventa, “galantuomo” di professione, e Maria Anna Croce, abitavano in via del Sopporto (oggi Vico Fornicello), in una casa che si estendeva con un arco su via Pistreola, collegandosi all’attuale orto-giardino e al fabbricato di via Aruccia.

Silvio visse a Bomba fino all’età di 14 anni. Dopo la morte della madre nel 1836, fu mandato a studiare al Collegio Diocesano di Chieti, dove già si trovava il fratello maggiore Bertrando, più grande di cinque anni. Nel 1838 la famiglia si trasferì a Montecassino, dove Bertrando aveva ottenuto un incarico per l’insegnamento della matematica e della retorica.

Nel 1843 Silvio si stabilì a Napoli presso lo zio Benedetto Croce (fratello della madre e nonno del celebre filosofo Benedetto Croce), consigliere della Suprema Corte. Qui lavorò come precettore per i figli dello zio, Pasquale e Marianna.

In quegli anni fondò il giornale “Il Nazionale”, il cui nome rifletteva chiaramente l’intento patriottico. Il primo numero fu pubblicato il 1° marzo 1848. Attorno al giornale si raccolse un gruppo di intellettuali borghesi, per lo più liberali, ma anche monarchici e conservatori.

Dopo la revoca dello Statuto concesso da re Ferdinando II, il 15 maggio 1848 scoppiarono scontri tra la popolazione e le guardie svizzere. La repressione culminò con il bombardamento della città, ordinato dal re, che si guadagnò così l’appellativo di “re bomba”. Seguirono giorni tragici: bande di lazzaroni perseguitarono i liberali, mercenari svizzeri commisero atrocità, si verificarono arresti indiscriminati, violenze e saccheggi. Il giorno successivo, il re sciolse la Camera dei Deputati.

Silvio Spaventa fu arrestato il 19 marzo 1849 e rinchiuso nel carcere di San Francesco a Napoli. Le accuse erano tre:

  1. Partecipazione agli eventi del 15 maggio, con l’intento di sovvertire lo Stato e incitare la guerra civile.
  2. Presenza al Congresso di Torino del 1848, con l’obiettivo di rendere la Sicilia indipendente.
  3. Partecipazione, come segretario, al Comitato di Pubblica Sicurezza presieduto dal marchese Tupputi, con la sottoscrizione di una lettera indirizzata al comandante della Real Piazza e Provincia di Napoli, esortandolo a obbedire al Comitato.

Il processo iniziò il 20 marzo 1849 e si protrasse per oltre tre anni, concludendosi l’8 ottobre 1852. Molti testimoni, tra cui C. Faccioli, I. de Cesare, G. Perillo, M. Turchi, D. Capitelli, L. Tarantino, A. de Luca, C. Tommasi, F. de Blasis, V. de Thomasis, A. Dentice, dichiararono che tra il 13 e il 15 maggio 1848 Spaventa si era distinto per il suo equilibrio, la difesa della legalità e il tentativo di evitare spargimenti di sangue.
Nonostante ciò, Silvio Spaventa fu condannato a morte con il “terzo grado di pubblico esempio” (impiccagione con veste nera, piedi scalzi e occhi bendati), insieme ad altri sei imputati. Furono condotti due volte in confortatorio. Tuttavia, il 19 ottobre 1852, la condanna fu commutata in ergastolo.

L’11 gennaio 1859 Silvio ricevette la notizia dell’esilio. Il 18 gennaio fu imbarcato, insieme ad altri 68 detenuti politici, sulla nave “Stromboli” con destinazione America. Dopo una sosta di 20 giorni a Cadice, furono trasferiti sul piroscafo “Steward”, destinato all’attraversamento dell’oceano. A bordo si trovava anche il figlio di Luigi Settembrini, ufficiale della marina britannica, che si era fatto assumere come cameriere e che, durante un ammutinamento, guidò la nave fino in Irlanda, dove sbarcarono il 6 marzo a Queenstown, nella Baia di Cork. Da lì, raggiunsero Londra e successivamente Torino.

Silvio però non esitò a tornare a Napoli per contribuire all’insurrezione contro i Borboni, mentre Garibaldi risaliva la penisola. Dopo l’unificazione d’Italia, fu nominato sottosegretario agli Interni e successivamente Ministro dei Lavori Pubblici fino al 1876.

In seguito, fondò e presiedette la IV Sezione del Consiglio di Stato, tuttora una garanzia delle libertà democratiche dei cittadini. Silvio Spaventa morì a Roma il 23 giugno 1893. Gli furono tributati i funerali di Stato e la sua salma riposa al cimitero del Verano, nel Quadriportico.

Approfondimento a cura di Santino Caramella
Nacque a Bomba nel 1822 da famiglia borghese. Silvio, insieme col fratello Bertrando, ricevette la prima educazione in casa, poi iniziò i suoi studi regolari nel seminario di Chieti e successivamente a Montecassino. La sua vera passione, sin dagli anni della prima giovinezza, furono gli studi filosofici, ma nel corso della sua vita si dedicò con la stessa fermezza, integrità, coerenza alla politica e al diritto. Fu, infatti, patriota esemplare per la sua devozione al paese e al bene comune, uomo politico incorruttibile e lungimirante per le sue capacità di governo, teorico dello stato liberale di diritto per la sua profonda dottrina filosofica e giuridica. Morì a Roma nel 1893.

Il problema dello Stato assume in Silvio Spaventa la concretezza storica attraverso la quale soltanto era possibile la sua soluzione liberale. Se prendiamo come termine di confronto Gioberti stesso nel Rinnovamento, dove sono le raticamente i rapporti intuiti dal filosofo torinese e con ciò stesso avvii a risolversi il loro contrasto; ma che Silvio riesca per il primo, in seno a questa corrente, a scorgerli nel suo aspetto storico e reale, non come aveva tentato il Gioberti stesso nel Rinnovamento, dove sotto le radici del riformismo più che del liberalismo, bensì come voleva lo spirito stesso della tradizione idealistica e, insieme, della politica italiana.

Certo, se noi guardiamo al Silvio Spaventa direttore del Nazionale di Napoli nel ’48 e alla corrispondenza sua col fratello fino al’60, tale nuova mentalità ci appare ancora in formazione. Da una parte essa vive nello studio di Hegel e nella ricerca filosofica un alto dramma speculativo: dall’altra, però, questo suo impulso concettuale non collima con la concezione politica, che tende a sollevarsi fino ad esso, ma é pur sempre legata a una impostazione contingente dei propri termini, al “dato” quarantottesco non trasceso più di quanto lo trascendesse la prassi cavouriana.

C’era infatti un contrasto immediato da superare, tra la razionalità hegeliana della storia e il dogmatismo della rivoluzione, tra la necessità dello svolgimento e la mutazione improvvisa che di esso si veniva a richiedere: se la storia è “ragione tutta spiegata”, com’è possibile che su tutto un filone di essa si pronunci il negativo verdetto rivoluzionario? e se la medesima storia è così perché è così, che diritto ha l’individuo o la parte di ribellarsi ad essa?

L’opposizione del singolo e della collettività, della coscienza e dell’autorità, rimasta impigliata nelle maglie della dialettica in Bertrando Spaventa, troncata imperiosamente a favore del secondo termine dal De Meìs, appare nel nostro areno ardua appunto perché storica: egli comincia tosto a intravedere che si può risolverla nel senso dell’immanenza secondo cui vive lo spirito nell’individuo, la società nel cittadino, cioè come coscienza di un valore infinito in fieri, che corre dall’uno all’altro contrario.

Anche il maggior fratello aveva indicato questa soluzione, e tuttavia non l’aveva attuata, ostinandosi a presupporre quel valore nell’universale storico e civile, come già formato o formantesi rispetto all’individuo: Silvio invece scorge che esso nasce in questo medesimo individuo e solo qui trova la sua specificazione concreta. Non si tratta più della “scoperta” dell’infinito che è “la Società: ma della Consapevolezza di esso, come creatura nostra e insieme nostra natura; lo Stato cessa di essere la realtà e la verità dell’individuo come altro dà questo, per diventare la verità della sua libertà; e la libertà non è coincidenza esterna con la legge, ma interna e autonoma unificazione di arbitrio e di volontà legale il cui risultato soltanto ci dà il principio dello Stato.

Porre effettivamente lo Stato nel vivo agone dello spirito, senza alcuna trascendenza: rovesciare la teologia hegeliana e giobertiana dell’Idea nella compiuta autonomia della storia, non estrinsecamente come avevano creduto di fare Feuerbach e Marx, ma facendo capo alla riforma degli stessi concetti in questione: fondare davvero il liberalismo come non c’erano riusciti peranco né i filosofi né i guelfi moderati, e come Cavour aveva cominciato a delinearlo praticamente; così si può riassumere il compito di Silvio Spaventa e della sua critica liberale.

Il compito era grave, ma non si può dire che sian mancate le forze all’ardito risolutore. Il quale, tenendo fisso lo sguardo al concetto dello Stato come perfezione della libertà, in questa libertà ricercò le radici dello Stato e della Nazione: perché la libertà si fa Stato in quanto giunge a razionalizzarsi, all’autocoscienza della propria ragione: e lo Stato si fa nazionale in quanto esso è concreto, è determinato, è storico. Non mai lo Spaventa dimentica, nel definire questa dottrina, il punto dì vista individualistico donde è partito: evitando accuratamente di negare l’individualità a profitto dell’universale, una volta pervenuto ad esso da quella, egli mostra come la prima si coordini e si organizzi nel secondo, a quel modo che il molteplice nell’uno.

Vale a dire che, se lo Stato è frutto di un’elaborazione varia e pluriversa, liberale nel suo progresso prima ancora che nel prodotto, allora ciò che via via promana da questa elaborazione non si annulla perché essa è (relativamente) compiuta, ma confluisce nello stesso compimento e ne rappresenta la base. La volontà soggettiva, insomma, non solo è un momento necessario della libertà e della legge, ma la loro prima forma, su cui concrescono le forme più alte e perfette e che tuttavia esse conservano come l’albero conserva la radice, perché ne hanno bisogno qual nutrimento della propria vita. Su tale teoria si assidono, per Silvio Spaventa, la giustificazione del regime rappresentativo, in cui si legittima l’iniziativa particolare, e il diritto ad esistere dei valori politici locali (municipio, provincia, regione).

Uno Stato che rinnegasse la sua faticosa genitura da questi ordini di vita sociale e di pensiero, che volesse sopprimerli sotto di sé per estendere senza confini il proprio potere, si taglierebbe gli unici piedi con cui può seriamente camminare e nell’ipotesi meno peggiore rimbalzerebbe a un grado e a un epoca di sviluppo di qualche secolo addietro. In pari tempo che sarebbe assurda la negazione dello Stato da parte dei valori particolari, che portano a costituirlo, se essa mirasse a distruggere in assoluto la statalità: quando si presenta, questa negazione è piuttosto l’affermazione di un nuovo Stato, che si erige dì fronte all’antico. La storia compare pertanto nella sua positiva dialettica, come vicenda che progredisce di balzo in balzo, attraverso il crogiuolo delle coscienze, delle lotte, delle sublimazioni: e la prassi rivoluzionaria si spiega come la figlia stessa del regime ch’essa vuol abbattere, sussulta con esso dentro un campo più grande e più sicuro di giudizio.

Questo Stato spaventiano deve essere monarchico e laico. Monarchico, perché è sua funzione unificare democrazia e aristocrazia, libertà e autorità, governo rappresentativo e fermo potere sovrano: ora, soltanto la monarchia costituzionale sembra poter assolvere questo compito. Laico, perché ha già il divino in se stesso, e in questo divino la sua religione. Quest’ultima conseguenza logica delle sue premesse non fu tuttavia svolta con pieno rigore dallo Spaventa: egli la pose come un corollario della spiritualità antiecclesiastica. La forma coerente del principio idealistico da lui affermato avrebbe dovuto essere che la coscienza dell’infinito in cui si caratterizza lo Stato esclude e supera ogni altra infinità, oppure quando si piega a questa, gli è dall’infinito della religione.

E pertanto il nostro postulava l’unità storica dei due infiniti nella loro conciliazione e nel loro reciproco rapporto: il che è, come tutti sanno, un modo dì girare la difficoltà, non di superarla. Lo Spaventa stesso aveva pensato, nel periodo cavouriano, che il rinnovamento politico dovesse portare a un rinnovamento religioso: lo Stato nuovo, o meglio la storia dello Stato moderno, crea ed esprime da sé la sua nuova chiesa. Tale è la forma della Protesta, che non sarebbe stata, nelle sue molteplici ramificazioni, se non avesse avuto dietro a sé un moto politico-economico che si staccava dal Medio-Evo; tale è l’aspirazione del neoguelfismo, che corre dal Primato alla Riforma cattolica.

Ma quando, trent’anni più tardi, il teorico della Destra torna ad affrontare lo stesso problema, egli ridiscende al livello della formula cavouriana, superandola soltanto nella considerazione concreta delle forze che stanno dietro alle due libertà, della Chiesa e dello Stato. Per lui l’infinità dello Stato consiste dunque nell’infinità temporale; e ciò rivela una parziale e voluta limitazione del suo liberalismo, che non riesce a definire ancora come possa essere religiosa la politica in qualunque punto e forma del suo processo, comprendente anche la Chiesa, e invece rifugge dall’unica conseguenza percepita, la statolatria demeisiana, preferendo arrestare in questo senso il proprio sviluppo teorico a un compromesso. Nessun compromesso per contro nella serena e austera visione della politica italiana.

Qui lo Spaventa fece tesoro del proprio pensiero teorico per differenziarsi nettamente così dalla corrente moderata tradizionale, come dalla forma anglicizzante del liberalismo: e in pari tempo per accentuare la distanza che separava la Destra dalla democrazia di sinistra, vagamente riformistica e settariamente laica. La natura della rivoluzione voleva, secondo egli stesso chiarì, che al trionfo pratico succedesse la coscienza dei legami avvincenti al passato e della realtà storica concreta; la natura del rapporto fra il particolare e la collettività, che lo Stato fosse un fattore positivo, non un legame estrinseco di elementi restii a una sostanziale unificazione e che d’altra parte esso Stato non evirasse i propri genitori né soffocasse i propri figli, come il dio del mito.

Ma poi, questa rivoluzione avvenuta in Italia tanto meno autorizzava qualsiasi astrattismo quanto più essa si era attuata come espansione storica di una forza costituita; questo Stato italiano minato da tante incomprensioni e da così ostili malvoleri, non poteva non essere unitario e tendente in ogni modo a una libera e disciplinata unità. Non lo Stato fuori della vita regionale, né lo Stato storico, che rifugge dalla utopia come dalla reazione, che è “giustizia, difesa, direzione”, che mira a essere in ciascun attimo del suo divenire, e a divenire in ciascun aspetto del suo essere.

Lo stato non è il diritto contro l’individuo; come il cittadino non può essere l’individuo contro il diritto: ma è la “coscienza del diritto e della giustizia” di fronte e dentro al cittadino, è la forma della storia nazionale che assume i valori singoli senza annullarli. Stato di diritto in due sensi: nel senso della collettività verso i suoi membri, ma anche nel senso dei membri verso la collettività. Silvio Spaventa che nel’48 aveva definito il movimento proletario francese come una necessità storica di quella nazione, nel’76, alla Camera, ricordava con piena coerenza liberale che dal principio di eguaglianza “sorge un’esigenza terribile nella coscienza delle moltitudini, alle quali non basta di essere eguali dinanzi alla legge, ma intendono di sollevarsi, intendono di partecipare ai beni della vita”.

Questo è l’impulso che nasce nello Stato di volta in volta a modificarlo, secondo la classe in cui si specificano quelle moltitudini, secondo la forma e i limiti secondo cui s’intendono questi beni: tale è, sotto una visuale economica, la dialettica del governo liberale. Ma la dialettica nel nostro si impostava con più sicura universalità, che trascende una semplice ammissione di valori economici nella politica liberale, come troppo fu incline a ritener sufficiente il liberalismo della Destra degenere: essa poteva già opporsi al marxismo sullo stesso suo terreno, sia perché ne aveva dentro di sé il principio storico e non ne aveva le possibilità riformiste, perché era veramente un metodo e un indirizzo, e non un dogma demagogico come quelli che vedeva trionfare con la Sinistra.

Bertrando Spaventa

Registrato all’anagrafe come Beltrando, ma conosciuto da tutti come Bertrando, nacque a Bomba il 26 giugno 1817 e morì a Napoli nel 1883. Studiò al Seminario Diocesano di Chieti, dove lo raggiunse il fratello Silvio nel 1836. Nel 1838 la famiglia si trasferì a Montecassino, dove Bertrando ottenne un incarico di insegnamento in matematica e retorica.

Nel 1845 si spostò a Napoli e aprì una scuola di filosofia molto frequentata da giovani intellettuali, attratti dalle sue idee ispirate all’hegelismo. Tuttavia, il pensiero hegeliano era malvisto dai Borboni, che lo consideravano liberale, rivoluzionario e sovversivo.

Bertrando, sacerdote, partecipò attivamente alla vita politica napoletana e poi italiana, al fianco del fratello. Dopo la repressione del 1848, fu costretto a rifugiarsi a Torino, dove svestì l’abito talare. Per mantenersi, scriveva articoli su giornali e impartiva lezioni private, senza mai cedere ai compromessi della piccola borghesia intellettuale piemontese.

A Torino, dove affluivano intellettuali da tutta Italia, si formò un nuovo ambiente culturale. Secondo Bertrando, il movimento filosofico italiano, nato a Napoli ma represso dai Borboni, doveva rinascere in Piemonte. A Napoli la censura aveva impedito ogni evoluzione, mentre al Nord la battaglia ideologica proseguiva. Come disse Gioberti: “Napoli, per ingegno e animo, è il fiore dell’emigrazione italiana”.
Bertrando contribuì profondamente a questa rinascita culturale, insieme a personalità come De Sanctis, De Mais, Tomasi, Mancini, Pisanelli, Scialoja. In breve tempo, l’idealismo italiano si sviluppò, liberandosi dell’eclettismo e aprendosi ai contatti con la filosofia europea.

Tra il 1851 e il 1856, Spaventa si dedicò allo studio della filosofia classica tedesca, approfondendo le opere di Hegel e di altri autori come Fischer. In questo periodo scrisse numerosi articoli e corrispondenze al fratello Silvio, allora detenuto a Santo Stefano, dove illustrava i suoi studi sulla Fenomenologia hegeliana.
Bertrando Spaventa fu il principale rappresentante dell’hegelismo italiano, che reinterpretò in modo originale, considerandolo uno strumento per rinnovare la cultura italiana, liberandola dalle vecchie correnti. Secondo lui, la filosofia moderna nacque in Italia con il Rinascimento (Bruno, Campanella), proseguì in Europa con Cartesio, Spinoza, Kant e Hegel, e ritornò in Italia con Vico, Rosmini e Gioberti, che riscoprirono il cuore del pensiero kantiano e idealista.

Dopo l’unità d’Italia, Bertrando insegnò filosofia nelle università di Torino, Bologna, Modena e Napoli, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1883.

Questi due illustri figli di Bomba hanno dato un contributo fondamentale alla costruzione dell’Italia unita e alla rinascita del pensiero filosofico nazionale, lasciando un’eredità viva ancora oggi.

Approfondimento a cura di Diego Fusaro
Bertrando Spaventa fu il maestro per eccellenza dell’hegelismo italiano, sia per la struttura filosofica sia per la ricchezza e l’organicità della sua posizione filosofico-culturale. Nato a Bomba, in provincia di Chieti, nel 1817, studiò nei seminari di Chieti e di Montecassino e si fece prete nel 1840.

Successivamente insegnò a Napoli e si avvicinò ai circoli liberali, partecipando alla redazione del “Nazionale”. Nel 1848 lascerà Napoli per trasferirsi prima a Firenze, poi a Torino. Ed è nel periodo torinese (chiusosi intorno al 1860) che Spaventa viene elaborando il suo sistema filosofico e il suo pensiero politico. L’uno e l’altro muovono inizialmente dalla duplice riflessione sul distacco (avvenuto con la Controriforma) della filosofia e della stessa società italiana da quella europea, e sulle “terapie” intellettuali ed educative necessarie per superarlo. Spaventa si sofferma inoltre, con particolare attenzione, sul pensiero di Hegel, concepito come il punto più avanzato del pensiero europeo e come il mezzo più adatto per costruire, anche in Italia, una cultura di tipo moderno: poichè, secondo Spaventa, ” il far intendere Hegel all’Italia, vorrebbe dire rifare l’Italia “.

In questi anni il filosofo abruzzese pubblica gli articoli (più tardi riuniti da Giovanni Gentile) su La politica dei gesuiti nel secolo XVI e XIX e su La libertà d’insegnamento , alcuni studi su Campanella e Giordano Bruno (1854-55), un lavoro su Kant (1856), e alcuni Studi sopra la filosofia di Hegel (1850). Tornato dopo il 1860 a Napoli, approfondisce la sua interpretazione di Hegel e quella della filosofia italiana moderna, polemizzando, da una parte, con il Positivismo e, dall’altra parte, con lo spiritualismo. Nel 1862 pubblica le lezioni napoletane del novembre-dicembre 1861, raccolte da Gentile sotto il titolo La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea .

Nel 1863 escono Le prime categorie della logica di Hegel , nel 1867 i Princìpi di filosofia , nel 1868 Positivismo, paolottismo, razionalismo , nel 1874 Idealismo o realismo? . Spaventa muore nel 1883, nello stesso anno in cui muore anche Marx. La filosofia italiana nasce, sostiene Spaventa, col Rinascimento, con Bruno; Campanella è già il “pensiero” di Cartesio, come Spinoza è ” la chiarezza di Bruno “. Con Giambattista Vico si afferma il principio dello “sviluppo” che esige una nuova “metafisica”: quella attuata più tardi da Kant e successivamente da Fichte, Schelling e Hegel.

Con l’Ottocento la filosofia europea ritorna (dopo una lunga assenza) in Italia, con Galluppi che è un pò il “nostro Kant”, con Rosmini che è “Kant inteso bene” e con Gioberti che “compie” Rosmini, come Fichte, Schelling ed Hegel “compiono” Kant. A proposito di Gioberti, scrive Spaventa in La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea (lezione VIII): ” Gioberti rappresenta la vera unità dello spirito, il vero concetto dello sviluppo, la vera ed assoluta psiche: una attività che come due attività è una attività, un ciclo che come due cicli è un unico ciclo. Tale è il vero ed assoluto spirito: il Creatore. Così e solo così, il psicologismo di Gioberti è psicologismo assolutamente trascendentale, cioè il vero ontologismo, e, direi io, il vero spiritualismo “. “Correggendo” Gioberti si trova infine Hegel, e così la filosofia italiana si riallaccia definitivamente alla filosofia europea.

Il disegno di Spaventa è certamente forzato, ma la linea culturale che esso implica ha un preciso significato. Si tratta di stabilire e sviluppare una rete di scambi organici tra la cultura della nazione appena nata nella nostra penisola e quella dei Paesi stranieri intellettualmente e socialmente più evoluti. In questo contesto, il punto di riferimento privilegiato da Spaventa è il pensiero tedesco, soprattutto quello hegeliano. L’interpretazione che Spaventa viene elaborando di Hegel (soprattutto dopo il 1848) è fondata sull’inversione, rispetto all’interpretazione ortodossa, del rapporto tra Fenomenologia dello spirito ed Enciclopedia e sulla complementare “riforma della dialettica”.

Per Spaventa la Fenomenologia precede e fonda l’ Enciclopedia e la Logica stessa, poichè senza coscienza non c’è scienza e poichè il pensiero è sempre soltanto uno: pensiero che pensa. L’itinerario gnoseologico-coscienzale della Fenomenologia non è l’introduzione al sapere ma il sapere stesso. Non dunque il Sistema è il cuore stesso del pensiero hegeliano, ma il metodo, cioè la dialettica: una dialettica che però Spaventa riforma in senso quasi fichteano, dando maggior importanza al momento della soggettività della coscienza e dell’atto del pensare rispetto ai momenti e fasi dell’oggettivazione e della sintesi.

Anche la politica di Spaventa, a parte la parentesi liberale del “Nazionale”, si ispira ad Hegel: è laica, ma legata ad un forte senso dello Stato. In esso Spaventa scorge non solo l’unico organismo che dà unità e senso politico alla nazione, ma anche la sorgente dei princìpi e dei valori ispiratori di un armonioso sviluppo civile e culturale. In altre parole, sia gli individui sia la comunità devono trarre dallo Stato l’alimento necessario ad una crescita ordinata e corretta.

E’ questa la teoria dello ” stato etico ” accolta dalle più disparate forze politiche, e utilizzata nel Novecento anche in una prospettiva totalitaria ben lontana dagli ideali e dai programmi di Spaventa. In questa concezione della politica si saldano insieme il concetto di “tradizione nazionale italiana” e quello di “sovranità etica razionale” che implica, accanto alla sostanziale laicità, anche una funzione educatrice dello Stato.

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